Sulla carta, oggi l’India si è svegliata come un mercato unico, grande quanto Europa, Stati Uniti, Brasile, Messico e Giappone messi insieme. Media ed economisti parlano di una rivoluzione, della più radicale riforma fiscale ed economica dall’indipendenza nel 1947. Dalla mezzanotte di ieri è entrata in vigore la Good and service tax (Gst), una sorta di Iva nazionale, che fa piazza pulita di 17 imposte statali e federali e unifica i 29 Stati e i 7 territori della Confederazione indiana, semplificando fisco e burocrazia.Insieme alla promozione dell’industria locale con il programma Make in India, alla diffusione dei conti correnti bancari (290 milioni quelli aperti in meno di tre anni) e delle carte d’identità elettroniche e biometriche, la Gst è una fondamentale tessera del mosaico pensato dal premier Narendra Modi per dare un volto nuovo al Subcontinente: quello di un Paese in grado di destarsi dall’immobilismo e di avanzare con decisione verso la modernità. Non solo a Bangalore o a Mumbai, non solo con le sue punte di eccellenza, in grado di fare shopping in Europa.
Una riforma epocale appunto, ma anche la più difficile da applicare. Se ne cominciò a parlare negli anni 80: oltre 30 anni di ipotesi, dibattiti e negoziati tra economisti, tra partiti politici e tra Stato centrale e autorità locali. Il varo della Gst è un grande risultato per il Governo Modi, leader del partito nazionalista hindu Bjp, e per il suo ministro delle Finanze, Arun Jaitley, che ha mostrato flessibilità e capacità negoziali apprezzate anche dagli avversari politici. A regime, la riforma dovrebbe “regalare” al Pil da 0,4 a 2 punti percentuali in più, secondo le stime di diversi istituti economici.
Finora, ognuno dei 29 Stati aveva il proprio regime fiscale: una frammentazione che sottopone le merci a una serie di balzelli che spesso si sommano, facendo lievitare i costi per le imprese e i prezzi al consumo e obbligando i trasportatori a perdere ore e ore in trafile burocratiche al confine tra Stato e Stato. Come risultato gli utili si assottigliano, l’inflazione sale e non di rado risulta più conveniente importare lo stesso bene dall’estero piuttosto che comprarlo in India. Così, le imprese che possono permetterselo si dotano di magazzini negli Stati indiani nei quali vendono le proprie merci. Le altre rinunciano a crescere.
La Gst dovrebbe far piazza pulita di tutto questo e permettere alle aziende di concentrare i magazzini e di spedire le proprie merci verso i mercati finali, con più bassi costi logistici e maggiore efficienza. Secondo il Governo, il risparmio strutturale per le imprese sarà di 14 miliardi di dollari.
Il sistema del credito d’imposta tipico dell’Iva dovrebbe poi spingere ogni soggetto della catena dell’offerta a mettersi in regola con le tasse per accedere ai rimborsi. E una maggior compliance fiscale è una cosa di cui ha fortemente bisogno un Paese come l’India, dove il rapporto tra entrate fiscali e Pil (12% nel 2016) è tra i più bassi al mondo. I vantaggi sono quasi sicuri per i grandi gruppi, che non dovrebbero avere grosse difficoltà ad affrontare gli investimenti necessari in consulenze fiscali e tecnologie. Tutt’altra storia per le piccole imprese, che finora hanno preferito restare nel settore dell’economia informale e che, però, secondo il Governo, rappresentano il 45% del settore manifatturiero e danno lavoro a 117 milioni di persone. Al tempo stesso, la semplificazione non potrà che aumentare la capacità di attrarre investitori esteri.
Tutto questo nelle aspettative del Governo. Nella realtà, la naturale tendenza indiana a complicare le cose e la necessità di raggiungere compromessi su compromessi per condurre in porto una riforma così radicale ha prodotto una struttura d’imposta ancora piuttosto farraginosa. Le aliquote sono cinque (3, 5, 12, 18 e 28%), anziché quella unica attorno al 16% ipotizzata in un primo momento. Poi ci sono decine di beni che sottostanno a regimi speciali o sono del tutto esenti. L’oro, bene rifugio per eccellenza per le famiglie indiane, sconterà un’imposta del 3%. Su tabacco, auto di lusso e bibite gassate scatterà invece la sovratassa sul “peccato”, che sui prodotti in tabacco può arrivare al 290%: il gettito previsto, 4,8 miliardi di dollari l’anno, aiuterà a compensare le minori entrate attese per i singoli Stati. I quali, almeno in una prima fase, manterranno la propria competenza sull’imposta, insieme al fisco centrale.
Le imprese dovranno compilare tre dichiarazioni fiscali al mese più una a fine anno. In tutto 37 adempimenti, in ognuno degli Stati in cui operano. La macchina amministrativa dovrà gestire fino a 5 miliardi di dichiarazioni al mese.
Lo stesso Governo si aspetta una difficile fase di transizione: perché il sistema si adatti ci vorranno alcuni mesi, durante i quali l’attività economica probabilmente frenerà, come avvisa anche l’Fmi, che pure promuove la riforma. Il capo-consulente economico del Governo di New Delhi, Arvind Subramanian, riconosce che «al momento ci sono troppe aliquote, ma nei prossimi 5 anni speriamo di poterle ridurre a due o tre». Per preparare e accompagnare il passaggio, l’Esecutivo ha messo in campo una massiccia campagna pubblicitaria, sotto lo slogan «One nation, one tax», e ha attivato linee telefoniche.
Associazioni industriali, governi statali e perfino ministri di New Delhi hanno chiesto un rinvio per dare alle imprese più tempo per prepararsi. La Gst sarà infatti gestita solo online, questo obbliga milioni di microimprese a dotarsi di computer, a imparare a usare il software dedicato e a registrarsi sul portale dell’amministrazione fiscale. Questa settimana, migliaia di commercianti e lavoratori del settore tessile hanno scioperato contro la nuova tassa.
Modi, però, non ha sentito ragioni: la Gst è l’innovazione più importante da quando si è insediato, oltre tre anni fa, con la promessa di modernizzare l’India. Non l’unica, però: in un Paese che sembrava irriformabile , Modi è riuscito a promuovere provvedimenti cruciali, come il codice dei fallimenti, oltre a una enorme (e controversa) operazione di demonetizzazione per contrastare l’ecomomia sommersa e la contraffazione. All’appello manca ormai solo una riforma agraria che semplifichi la compravendita dei terreni, facilitando gli investimenti industriali e infrastrutturali di cui il Paese ha bisogno.
Di Gianluca Di Donfrancesco